venerdì 25 dicembre 2020

Manifesto social

Viviamo nell'era dei social, questo è poco ma sicuro.

C'è chi vi passa ore ogni giorno, quasi fossero in effetti una sorta di luogo fisico, chi soffre per un like mancato o per un commento di troppo, chi non cucina niente senza documentare la cosa con foto, video e storie (per me storie saranno sempre quelle che mi raccontavano i miei nonni da bambino, così come cartella sarà sempre quella che usavo a scuola, anche venticinque anni dopo il lancio di Windows - ma questo è un problema mio), chi fa le pulci a ciò che scrivono gli altri (un po' per abitudine, e forse un po' anche per dispetto, direbbe Vasco; SocialPolizei, direbbe Brecht) e chi, talvolta forse con la coda di paglia, afferma categorico che i social non gli interessano perché sono pericolosi e comunque non c'è scritto niente di vero.

C'è persino chi, contro ogni buon senso, ha trovato il modo di farli diventare un lavoro - e non penso ad eccelenze come Chiara Ferragni, Donald Trump, Salvini o i Cinquestelle: penso a chi di mestiere cura i social di qualcun altro, osserva e spulcia quelli della concorrenza, imposta e progetta post quasi fossero una cosa seria, li riempie di parole col ritmo giusto e con la frequenza giusta, al più sbagliando qualche virgola; nei casi migliori capita che il risultato contenga persino validi contenuti.

Mi sono sempre fatto l'idea che, limitandosi all'uso personale, esistano fondamentalmente due modi diversi di utilizzare diciamo il Facebook di turno: farsi i cazzi degli altri e costringere gli altri a farsi i cazzi nostri, li avrebbe definiti Freud - uno che, quanto a farsi i cazzi degli altri, non aveva nulla da invidiare a Google. La mia modalità preferità è decisamente la seconda - il che è ovvio, probabilmente, sopra una certa soglia di egocentrismo e più o meno opportuna autostima. Non per niente preferisco il contenitore blog al contenitore Facebook/Twitter/...: tutto lo spazio che voglio nel formato che voglio, come una sorta di parete su cui buttare parole che nessuno leggerà.

D'altro canto è innegabile quanto sia affascinante l'idea di costruire una rete di contatti, più o meno reali, con altre persone più o meno note; seguirne i contenuti avendo la possibilità quasi divina di esprimere un giudizio su ciascuno di essi: giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male, avrebbe forse chiosato il mai sufficientemente compianto De André.

A me piace, senza dubbio mi piace molto!, l'idea di poter ricostruire contatti con persone che non vedo da decenni; l'idea di poter condividere ciò che penso su un qualche argomento, si tratti di qualcosa che ha a che fare con argomenti tecnici relativi al mio ambito lavorativo, dei miei dubbi prima dell'ennesima tornata elettorale o dell'emozione di passare una notte insonne con una bimba di pochi mesi tra le braccia. Egualmente, mi piace l'idea di poter dire a qualcuno "mi piace ciò che hai scritto, sono d'accordo con te" - e di farlo con un click. Mi piace assai meno l'idea di poter dire a qualcuno "hai scritto una cazzata" - ed infatti ho imparato a non farlo, per il bene del mio fegato e per rispetto del mio tempo, se non in casi molto rari.

Da persona molto più votata all'analisi che alla sintesi, ma con una innata passione per l'idea un po' ingenua che il nostro comportamento ed il nostro pensare il mondo possano ricondursi ad un piccolo numero di principi generali (ad un'etica?, si sarebbe forse chiesto Kant), se non altro una volta circoscritto uno specifico ambito della Conoscenza e della Realtà (che definirei, parafrasando Bohr, non tanto ciò che la Natura è, quanto piuttosto ciò che della Natura si può dire), da persona eccetera eccetera, dicevo, mi sono chiesto se esista una qualche "lista della spesa" di "regole" che controllano, o  quantomeno vorrei controllassero, il mio agire social, a proposito di ciò che sono disposto a condividere (ed in quale contesto sono disposto a farlo) ed a proposito degli altrui contenuti che sono disposto a sottoscrivere coram populo. La buona notizia è che ne esistono due (due liste, voglio dire); quella cattiva è che (vedere alla sezione costringere gli altri a farsi i cazzi nostri: ciao Freud, questa è per te) ho voglia di condividere con i miei tre lettori questa specie di mio personalissimo manifesto social. Ed eccolo qui:

Regole per "condividere" contenuti altrui:

  • argomento generale di mio interesse
  • tema specifico abbastanza ben approfondito da permettermi di dire che sono d'accordo
  • buona forma italiana, se applicabile
Regole per "pubblicare" contenuti "miei":
  • chiarezza circa il fatto che si tratta di mie opinioni, salvo diverse ed esplicite citazioni o indicazioni
  • chiarezza circa il tono che voglio dare alla cosa: se sto scherzando, se sto facendo del sarcasmo indipendentemente dal tema e dallo specifico contenuto, dev'essere evidente che tono e merito sono due aspetti della cosa che non devono necessariamente andare di pari passo
  • totale libertà nell'esprimere me stesso: se per qualche motivo non posso esserlo fino in fondo, che si tratti di considerazioni filosofiche sulla natura dell'universo o della battuta stupida che non fa ridere nessun altro, tanto vale non scrivere - e va bene lo stesso, non me l'ha certo ordinato il medico
Il che significa fondamentalmente che, per quanto possibile, cerco di pubblicare solo contenuti che il contesto renda completamente ed esplicitamente riferibili a me: tutto il resto è letteratura, avrebbe aggiunto Verlaine.

E - niente. Visto che cosa succede a farsi i cazzi degli altri? ;-)

martedì 8 dicembre 2020

Bilanci e buoni propositi - anzi no

È di moda (nel senso statistico del termine, ma non solo), in questo periodo dell'anno, tracciare bilanci dell'anno passato e stilare liste di buoni propositi cui non dare seguito nell'anno che verrà.

Si tratta di una tendenza che assume le più varie forme, in funzione di chi stila e traccia, del contesto più o meno personale in cui tali attività prendono forma e della pubblicità che alla cosa si vuol dare.

Io stesso, che pure nutro teorica, filosofica avversità nei confronti dell'abitudine in questione, non ne sono a ben vedere completamente scevro: pur essendo incline, generalmente, ad un rispetto quasi ossessivo e fin troppo ostentato delle mie posizioni teoriche, soprattutto quando esse si collocano in controtendenza rispetto al caso più comune, mi trovo infatti talvolta a riflettere, in momenti di particolare, colpevole distrazione, su quante volte mi è successa la cosa X nel periodo Y. È mia convinzione che non vi sia in generale niente di male, ma che sia altresì molto vicino alla mia idea di ridicolo farlo in corrispondenza di particolari valori di Y, quasi mai nemmeno lontanamente correlati con la rilevazione (quante volte mi è successa la cosa X) che si sta facendo.

Di questa serie: km percorsi in bicicletta nell'anno solare (varianti: metri di dislivello, ore in sella); blog post con più visualizzazioni nel secondo semestre dell'anno (varianti: post LinkedIn con più hype (giuro, non sto inventando), hashtag di maggior tendenza), numero di giornate dedicate ad uno specifico aspetto della mia attività lavorativa, numero di parole/espressioni imparate (hype!) o coniate nel corso degli ultimi mesi... e via vaneggiando.

E poi la serie gemella: i (buoni: se non altro quelli pubblicizzati) propositi per il futuro: quante volte punto a fare la cosa X nel periodo Y. Si tratta, spesso, di semplici proiezioni sul futuro dei bilanci del passato, diciamo con un venti/trenta per cento in più tanto per essere ottimisti e (parole imparate: +1) proattivi. In qualche caso la fantasia - che col futuro gioca più facilmente che col passato - si lascia andare e ci proponiamo di imparare lingue, leggere libri, compiere imprese sportive, raggiungere traguardi professionali.

Personalmente, sono dell'idea che sia sempre un buon momento per tracciare una linea, guardarsi alle spalle e chiedersi dove si vuole andare - non serve che sia la fine dell'anno (o di qualche arbitrario periodo Y), come non è certo necessario (trovo anzi sia molto ipocrita pensarlo) che sia Natale per essere tutti più buoni. A volte farebbe bene ricordare come - al di là delle corrispondenze con fenomeni astronomici, che si limitano a dare un ritmo, una periodicità, ma lasciano all'umano arbitrio fissare l'origine del sistema di riferimento - i nostri calendari altro non siano che convenzioni: sarebbe dunque assai più significativo tracciare bilanci e porsi obiettivi relativamente ad intervalli di tempo significativi dal punto di vista della cosa che si sta misurando.

Trovo dunque piuttosto fuori luogo la moda di cui sopra, che tendo a considerare divertente, in piccole dosi; ridicola, in dosi più massicce; decisamente fastidiosa quando sembra essere considerata un must have (altro +1, tanto per non farci mancare niente).

E niente, mi faceva piacere dirlo - e ora scusate, ma devo andare a redigere la lista dei miei video preferiti del 2020 ;-)!



giovedì 19 novembre 2020

Racconto nerd

Sono decisamente un nerd un po' atipico: l'etichetta (per quanto possa valere qualcosa di simile ad un'etichetta: nel mio sistema di pensiero, zero) si adatta bene al lavoro che faccio, a ciò che ho studiato, ad una percentuale non trascurabile di ciò che suscita il mio interesse intellettuale - e, me ne rendo conto, al fatto che io scriva cose tipo "una percentuale non trascurabile di ciò che suscita il mio interesse intellettuale".

Non è tuttavia un'etichetta che io utilizzerei per definirmi - nemmeno al netto della mia tendenza a non assegnare con eccessiva facilità etichette a persone, pensieri, cose, se non accompagnandole con una lunga dissertazione (invero forse un po' nerd) su come tali etichette vadano prese, nel migliore dei casi, come una provocazione.

È però evidente che ad alcune persone piace incasellare gli altri: c'è chi affibbia etichette, chi assegna colori (bianco o nero ma mai bianconero, giallo o rosso ma non giallorosso), chi divide il prossimo sulla base delle "case" di Harry Potter (serpe verde o tasso rosso?), chi si riferisce a specifiche categorie umane sulla base dei personaggi di romanzi famosi o di serie tv (Emma Bovary o Sheldon Cooper?). Personalmente trovo che, qualunque sia il criterio di classificazione, si tratti sempre di una semplificazione rispetto all'infinita gamma di umanità, arcobaleno di sfaccettature e singolarità. Spesso ho la sensazione che, più che di semplificare, si tratti solo di essere superficiali.

Dato però che esserlo non costa nulla, provo a stare al gioco, arrivando alla fatidica domanda: che tipo di nerd sono? Rispondo (per contrappasso) con una (breve?) lista (in ordine sparso) di caratteristiche per le quali mi allontano dallo stereotipo del nerd - o, se non altro, dalla versione che ho in mente io in questo momento, che è l'unica che in fondo mi interessa e certo l'unica di una qualche importanza in un post in cui si parla di superficialità e si prova a giocare con essa.

  • non mi piace la birra (ok, la lista potrebbe finire qui)
  • non mi piace la birra!!! (proprio per niente)
  • non mi piace particolarmente il caffé e comunque non bevo, salvo rarissime eccezioni (diciamo una o o due volte all'anno e solo per cortesia nei confronti di chi me lo offre), caffé non decaffeinato
  • mi piace (mi è sempre piaciuto molto) praticare sport
  • non sono un particolare fan de Il Signore degli Anelli (One ring to rule them all, eccetera eccetera eccetera... Yawn...)
  • non sono particolarmente interessato alla saga di Star Wars
  • non ho particolari problemi a fare amicizia, conoscere persone, stare in compagnia
  • non ho particolari difficoltà (intendo: non vivo la cosa come una forma di emarginazione) a stare da solo, tanto che lo sport che preferisco è uno sport che si pratica, generalmente, in solitudine e tanto che stare in lockdown, bene o male, non mi è pesato poi troppo
  • non mi piace (forse l'ho già detto) la birra

Il solo superpotere nerd che effettivamente accompagna le mie giornate è la tendenza ad essere un tantinello sarcastico - chissà se è sufficiente per meritare l'etichetta - chissà se sono del colore giusto - maledetto grifondoro!

E voi, che tipo di nerd siete? Il birraiolo, Luke Skywalker, Frodo Baggins? Siete rossi o gialli? Serpeverde o caffeinomani? ;-)

domenica 15 novembre 2020

Smartworking, Gaber ed il senso di colpa

Smartworking è, senza dubbio, la buzzword del momento: ne parlano in tanti, dai nostri governanti alla vicina di casa di una certa età che, tutto sommato, è contenta di non essere più l'unica del palazzo a passare la giornata in casa; dalle mie figlie - il mio papà insegna ai computer, lavora da casa ed è sempre in collconferenz - ai titoli dei giornali nazionali.

Si passa da chi per esperienza ha la ricetta giusta per farlo bene a chi stabilisce una soglia minima accettabile, in tempi di semi-lockdown, per i valoratori della Pubblica Amministrazione; da chi ha fatto di necessità virtù, si è convertito tutto sommato con entusiasmo ad una nuova modalità di lavoro e probabilmente non tornerà indietro, a chi lo detesta, lo vede come un'imposizione, un ostacolo al controllo del tempo dei propri collaboratori. C'è chi a casa alla lunga si sente solo, chi sente la mancanza del caffé alle macchinette con i colleghi.

Personalmente ho la fortuna di lavorare per un'azienda che, già in tempi pre-Covid, ha iniziato a puntare molto sul lavoro remoto e smart: da casa, dalla montagna, da un agriturimo in Toscana... conta essere disponibili con i colleghi e concludere in tempo le attività pianificate. Così... lavoro da casa a tempo pieno - per ovvi motivi - da oltre otto mesi ma da più di un anno  ho iniziato ad alternare giornate in ufficio a giornate a casa a giornate "metà e metà", secondo le mie comodità, le necessità dei colleghi ed il tipo di attività da svolgere. Ho imparato a comportarmi bene quando parlo con qualcuno da remoto, aspettando la fine di una frase per interloquire (dove mamma e papà hanno fallito miseramente, hanno avuto successo in una manciata di mesi Google Meet, Slack e Zoom);  a spegnere il microfono quando non sto parlando; ad accendere la webcam, tranne quando le mie figlie si fanno importune o qualche interlocutore ha problemi di banda; a dimenticarmene, di tanto in tanto, che è un po' come andare in ufficio e parlare con qualcuno senza guardarlo in faccia; a non rimanerci male se qualcuno spegne la propria, perché avrà i suoi motivi - la banda da risparmiare, la canotta da spiaggia per il caldo, la voglia di mantenere un minimo di privacy in quella finestra sulla sua vita domestica che ogni conversazione di lavoro è diventata.

E: mi piace.

Mi piace uscire di casa per accompagnare le bimbe a scuola per poi tornarci quasi subito, a lavorare ed aspettare il rientro delle mie donne. Mi piace avere a portata di mano la mia cucina, il mio bagno, il giardino del mio condominio - i miei spazi. Avere la possibilità di organizzare il mio tempo come preferisco e nel modo più funzionale tanto alle mie attività lavorative quanto alla pianificazione della vita familiare e del mio tempo libero.

Potermi alzare dalla sedia, cambiare ed uscire in bici in pausa pranzo; farmi spedire un pacco a casa anziché in ufficio; fare due chiacchiere con il pensionato Amazon-addicted quando entrambi riceviamo una consegna; essere a casa quando Laura ed Irene tornano da scuola o quando Cristina passa a casa a pranzo; poter togliere il bucato dalla lavatrice e metterlo in asciugatrice a metà mattina o sgranchirmi le gambe portando l'umido al cassonetto; mi piace l'idea che tenda in qualche modo a perdersi una certa struttura statica del tempo - non nel senso della fisica teorica: quello è un altro discorso -  in favore di un'organizzazione più in divenire, che tenga conto degli obiettivi da raggiungere sul lavoro e della qualità della vita sul lavoro ed attorno ad esso.

Di nuovo, sono felice (se l'idea stessa di senso di appartenenza non fosse completamente estranea al mio modo di essere direi: fiero) di lavorare per un'azienda che valuta la possibilità di ufficializzare una gestione smart, flessibile e libera, del tempo - e non solo dello spazio (Einstein direbbe che sono, in qualche modo, la stessa cosa) - dedicati al lavoro.

E tuttavia.

Tuttavia, mi accade di sentirmi un po' a disagio per il fatto di avere questa possibilità: perché la libertà, vista da sinistra più che in senso liberale, è tale solo quando è di tutti, diversamente andrebbe chiamata privilegio - e sono stato cresciuto con l'idea che i privilegi siano da guardare con sospetto, anche quando sono a nostro favore (per dire: non si può dire che in Italia vi sia libertà di sposarsi, dato che il matrimonio è un privilegio riservato agli eterosessuali; personalmente, da eterosessuale sposato, trovo la cosa molto fastidiosa).

Così, forte del senso di colpa che la mia educazione cattolica e di sinistra mi garantisce di aver sempre a portata di mano, tendo a sentirmi un privilegiato per il fatto di poter lavorare con modalità organizzative che potrebbero - e, nel contesto attuale, certo dovrebbero - essere disponibili a chiunque svolga un'attività lavorativa per cui la presenza fisica non sia strettamente necessaria... mentre l'evidenza di conoscenti e parenti è che molte aziende, o molti diretti "superiori", continuano - nel 2020 ed in piena pandemia - a considerare un problema rinunciare al controllo diretto - visivo - dei proprio collaboratori, arrivando al punto di rendere abituali chiamate-fiume su un qualche strumento di comunicazione via web solo per ricostruire una parvenza di vita da ufficio

Mi chiedo se sia questione di mancanza di fiducia nei confronti dei colleghi; di inconsapevole mancanza di auto-stima (se non potessi controllare che cosa fanno gli altri non saprei che fare del mio tempo); di incapacità di ripensare i tradizionali modelli di gestione delle persone facendoli evolvere verso approcci più moderni... e mi rispondo che probabilmente si tratta di tutte queste motivazioni e di decine di altre. Nei momenti - frequenti -  di ottimismo mi dico anche che il futuro è ogni giorno più vicino e che io ho il "solo" privilegio di essere qualche passo più avanti della media...

Resta la sensazione che si tratti di un privilegio e che non si potrà parlare di vera e propria libertà di lavorare in modo smart fino a quando non sarà una condizione diffusa - del resto, libertà non è uno spazio libero/libertà è partecipazione...


martedì 30 giugno 2020

Una pin-bar per domarli


Post un po' nerd: in un mondo sempre più web-centrico, la lista delle webapp che utilizziamo più frequentemente definisce, in un certo senso, se non il nostro modo di essere... be', almeno il nostro modo di pensare la nostra quotidianità.
Ecco quindi l'idea di commentare, brevemente, il contenuto della pin-bar del mio profilo di Chrome: la lista delle webapp che si riaprono ogni volta che apro il browser.

Comunicazione: GMail, Telegram, WhatsApp
Notizie: The Old Reader
Organizzazione: Google Keep, Google Calendar
Musica: Amazon Prime Music, YouTube
Sport: Garmin Connect
Altro: Blogger



Abbastanza nerd, in effetti - ma non abbastanza da escludere lo sport ;-) ...

E voi - che cosa avete nella vostra pin-bar?

domenica 28 giugno 2020

Acqua di montagna, acqua di città

Acquedotto di montagna vs. acquedotto di città: quando un cubetto di ghiaccio dice più di mille parole... 

martedì 16 giugno 2020

Due cose che ho imparato dal coronavirus

Breve elenco, in ordine sparso, di cose che ho imparato - che molti di noi hanno imparato - nei mesi di convivenza col Coronavirus, tra lockdown più o meno severo e timide riaperture.

  • a lavare le mani: voglio dire, se non abbiamo imparato dopo mesi di video, interviste, schede su quanto sia importante farlo e farlo bene... be', abbiamo capito perché il virus in questione ci ha ridotti così (impara l'arte e mettila da parte)
  • lavorare da casa è possibile: c'è chi, come me, aveva la possibilità di farlo almeno per la metà del tempo indipendentemente dal lockdown; ma tanti sono stati forzati a farlo e si è finito per scoprire che, guarda un po' 😱, funziona - non è un danno per le aziende, non è un danno per l'economia (da non dimenticare)
  • il mio lavoro mi rende un privilegiato: vedi punto precedente, che ovviamente non vale per tutti; per gli altri, mi aspetterei un sostegno dalle istituzioni più che una corsa a riaprire tutto in tempi brevissimi - ma ne parliamo dopo (senso di colpa)
  • la socialità è sopravvalutata: tutti a disperarsi per l'obbligo di distanziamento sociale, l'astinenza da aperitivi ed uscite serali, la mancanza di contatto umano sul lavoro - e poi tutti sorprendentemente sopravvissuti, sfruttando la tecnologia per rimanere vicini, sfrondando forse un po' i rami meno essenziali della propria socialità, e fondamentalmente anche godendosi un po' di solitudine e la compagnia dei propri familiari più vicini (nessun uomo è un isola ma forse un po' anche)
  • la corsa all'evento online: davvero, e metto in prima fila quelli che fanno il mio mestiere: avete un po' rotto, con questa patetica corsa a saltare sul treno del lockdown per raccontare di quanto siete bravi a continuare a lavorare e ad organizzare eventi, discussioni, tavole rotonde, e poi post, tweet, retweet, e podcast e conferenze on air... (il troppo stroppia)
  • la sanità privata fa più vittime di quella pubblica: incredibile come il pensare la sanità in ottica business prima che in ottica di servizio renda problematico gestire emergenze e picchi come quelli dei mesi scorsi - Lombardia prima in classifica, ancora una volta e non certo nella classifica più ambita, quella delle vittime da Covid-19 (eccellenze della sanità lombarda - ma dove?)
  • riavviare l'economia (Riaprire! Riaprire tutto!) sembra più importante che scongiurare una recrudescenza dell'epidemia - tra l'altro, dopo che i ritardi iniziali nel chiudere tutto, soprattutto in certe zone, sono stati tra le cause principali delle stragi dei mesi passati. Anche in questo caso, Lombardia in prima fila (i più ricchi del cimitero)
  • la madre degli idioti è sempre incinta: che cos'altro concludere, dopo aver visto le immagini di piazzale Arnaldo (a Brescia) affollata di persone senza mascherina, intente a placare l'astinenza da aperitivo, nel primo venerdì sera di riapertura? (quelli che il virus sono fatti degli altri
  • baci e abbracci: tutti quelli (non molti) che non ho scambiato fuori sono stati ampiamente compensati dal vivere ogni minuto della giornata fianco a fianco con mia moglie e le nostre bimbe; se mai torneremo ad una completa normalità, tutto questo mi mancherà
E poi tante altre, che al momento non mi vengono in mente e forse non meritano particolare primo piano, ma senza dubbio mi porterò dentro.

martedì 2 giugno 2020

2 giugno

Festa della Repubblica: una delle due feste nazionali legate alla storia italiana, bella e irrinunciabile come un 25 aprile, per dirla con gli Offlaga Disco Pax.
Ne ho parlato con mia figlia, affascinata - come tutti lo siamo stati, a nove anni - dall'idea di avere - o, meglio, che l'Italia abbia avuto, in passato - un re ed una famiglia reale.
Al di là dell'attualità, che ha visto i soliti noti, sedicenti patrioti che in Europa votano contro gli aiuti al nostro paese, violare qualunque indicazione anti- contagio ed anti-assembramento, perché va bene legge, ordine e sicurezza, ma solo quando sono loro a dirlo, a parte l'attualità, dicevo, abbiamo parlato dei re di ieri e dei relativi discendenti di oggi - ci fosse bisogno di un motivo per non essere monarchici, rileggetevi la recente querelle tra rami della famiglia Savoia e rispettivi sostenitori sull'appassionante tema le figlie di Emanuele Filiberto hanno diritto ad entrare in linea di successione?
Non affaticatevi il cervello, sostenitori di questo o di quel discendente di ex casata regnante: chi se ne frega è l'unica risposta, dato che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.

Ho ricordato un'altra cosa, alle mie figlie: settantaquattro anni di Repubblica, certo. Ma anche settantaquattro anni dalla prima occasione in cui le donne, in Italia, ebbero diritto di voto: mia nonna, per dire, aveva trentasette anni e sino ad allora mai aveva potuto votare. Ora lo diamo per scontato, ma nel passato del nostro paese monarchia, diritto divino a governare e ventennio fascista vollero dire anche che solo chi portava i pantaloni era considerato degno di prender parte alla vita pubblica...
Viva la Repubblica, una volta di più.

Equipe 84