domenica 15 novembre 2020

Smartworking, Gaber ed il senso di colpa

Smartworking è, senza dubbio, la buzzword del momento: ne parlano in tanti, dai nostri governanti alla vicina di casa di una certa età che, tutto sommato, è contenta di non essere più l'unica del palazzo a passare la giornata in casa; dalle mie figlie - il mio papà insegna ai computer, lavora da casa ed è sempre in collconferenz - ai titoli dei giornali nazionali.

Si passa da chi per esperienza ha la ricetta giusta per farlo bene a chi stabilisce una soglia minima accettabile, in tempi di semi-lockdown, per i valoratori della Pubblica Amministrazione; da chi ha fatto di necessità virtù, si è convertito tutto sommato con entusiasmo ad una nuova modalità di lavoro e probabilmente non tornerà indietro, a chi lo detesta, lo vede come un'imposizione, un ostacolo al controllo del tempo dei propri collaboratori. C'è chi a casa alla lunga si sente solo, chi sente la mancanza del caffé alle macchinette con i colleghi.

Personalmente ho la fortuna di lavorare per un'azienda che, già in tempi pre-Covid, ha iniziato a puntare molto sul lavoro remoto e smart: da casa, dalla montagna, da un agriturimo in Toscana... conta essere disponibili con i colleghi e concludere in tempo le attività pianificate. Così... lavoro da casa a tempo pieno - per ovvi motivi - da oltre otto mesi ma da più di un anno  ho iniziato ad alternare giornate in ufficio a giornate a casa a giornate "metà e metà", secondo le mie comodità, le necessità dei colleghi ed il tipo di attività da svolgere. Ho imparato a comportarmi bene quando parlo con qualcuno da remoto, aspettando la fine di una frase per interloquire (dove mamma e papà hanno fallito miseramente, hanno avuto successo in una manciata di mesi Google Meet, Slack e Zoom);  a spegnere il microfono quando non sto parlando; ad accendere la webcam, tranne quando le mie figlie si fanno importune o qualche interlocutore ha problemi di banda; a dimenticarmene, di tanto in tanto, che è un po' come andare in ufficio e parlare con qualcuno senza guardarlo in faccia; a non rimanerci male se qualcuno spegne la propria, perché avrà i suoi motivi - la banda da risparmiare, la canotta da spiaggia per il caldo, la voglia di mantenere un minimo di privacy in quella finestra sulla sua vita domestica che ogni conversazione di lavoro è diventata.

E: mi piace.

Mi piace uscire di casa per accompagnare le bimbe a scuola per poi tornarci quasi subito, a lavorare ed aspettare il rientro delle mie donne. Mi piace avere a portata di mano la mia cucina, il mio bagno, il giardino del mio condominio - i miei spazi. Avere la possibilità di organizzare il mio tempo come preferisco e nel modo più funzionale tanto alle mie attività lavorative quanto alla pianificazione della vita familiare e del mio tempo libero.

Potermi alzare dalla sedia, cambiare ed uscire in bici in pausa pranzo; farmi spedire un pacco a casa anziché in ufficio; fare due chiacchiere con il pensionato Amazon-addicted quando entrambi riceviamo una consegna; essere a casa quando Laura ed Irene tornano da scuola o quando Cristina passa a casa a pranzo; poter togliere il bucato dalla lavatrice e metterlo in asciugatrice a metà mattina o sgranchirmi le gambe portando l'umido al cassonetto; mi piace l'idea che tenda in qualche modo a perdersi una certa struttura statica del tempo - non nel senso della fisica teorica: quello è un altro discorso -  in favore di un'organizzazione più in divenire, che tenga conto degli obiettivi da raggiungere sul lavoro e della qualità della vita sul lavoro ed attorno ad esso.

Di nuovo, sono felice (se l'idea stessa di senso di appartenenza non fosse completamente estranea al mio modo di essere direi: fiero) di lavorare per un'azienda che valuta la possibilità di ufficializzare una gestione smart, flessibile e libera, del tempo - e non solo dello spazio (Einstein direbbe che sono, in qualche modo, la stessa cosa) - dedicati al lavoro.

E tuttavia.

Tuttavia, mi accade di sentirmi un po' a disagio per il fatto di avere questa possibilità: perché la libertà, vista da sinistra più che in senso liberale, è tale solo quando è di tutti, diversamente andrebbe chiamata privilegio - e sono stato cresciuto con l'idea che i privilegi siano da guardare con sospetto, anche quando sono a nostro favore (per dire: non si può dire che in Italia vi sia libertà di sposarsi, dato che il matrimonio è un privilegio riservato agli eterosessuali; personalmente, da eterosessuale sposato, trovo la cosa molto fastidiosa).

Così, forte del senso di colpa che la mia educazione cattolica e di sinistra mi garantisce di aver sempre a portata di mano, tendo a sentirmi un privilegiato per il fatto di poter lavorare con modalità organizzative che potrebbero - e, nel contesto attuale, certo dovrebbero - essere disponibili a chiunque svolga un'attività lavorativa per cui la presenza fisica non sia strettamente necessaria... mentre l'evidenza di conoscenti e parenti è che molte aziende, o molti diretti "superiori", continuano - nel 2020 ed in piena pandemia - a considerare un problema rinunciare al controllo diretto - visivo - dei proprio collaboratori, arrivando al punto di rendere abituali chiamate-fiume su un qualche strumento di comunicazione via web solo per ricostruire una parvenza di vita da ufficio

Mi chiedo se sia questione di mancanza di fiducia nei confronti dei colleghi; di inconsapevole mancanza di auto-stima (se non potessi controllare che cosa fanno gli altri non saprei che fare del mio tempo); di incapacità di ripensare i tradizionali modelli di gestione delle persone facendoli evolvere verso approcci più moderni... e mi rispondo che probabilmente si tratta di tutte queste motivazioni e di decine di altre. Nei momenti - frequenti -  di ottimismo mi dico anche che il futuro è ogni giorno più vicino e che io ho il "solo" privilegio di essere qualche passo più avanti della media...

Resta la sensazione che si tratti di un privilegio e che non si potrà parlare di vera e propria libertà di lavorare in modo smart fino a quando non sarà una condizione diffusa - del resto, libertà non è uno spazio libero/libertà è partecipazione...


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