lunedì 25 giugno 2012

Darwin al consultorio

Chiacchieravo, un paio di giorni fa, con un'operatrice di un consultorio familiare circa il fatto che i bimbi, nell'età in cui iniziano a gattonare, a mettersi in piedi ed infine a camminare, hanno la tendenza ad utilizzare il cranio come ammortizzatore in caso di caduta, e ad essere dunque spesso adornati di bernoccoli. E si parlava di come l'essere le ossa dei bimbi più morbide di quelle degli adulti riduca la gravità (non me ne voglia Newton) di tale tendenza.
Al che la consulente in questione ha chiosato qualcosa come "del resto, la Natura - non so se nella sua frase ci fosse la maiuscola: io per abitudine la metto - non fa mai le cose a caso".

Ora.

Ho deciso che se voglio lasciare in eredità a mia figlia un mondo migliore di quello che ho trovato devo provare a fare mia una frase di Einstein, secondo cui "Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose": e che dunque non devo perdere occasione per provare ad opporre il mio modo di vedere le cose a manifestazioni con esso in contrasto - essendo in ultima analisi il concetto di "mondo migliore" intimamente legato al modo di vedere del singolo.

Così, memore dell'illuminante lettura de "Il gene egoista", ho avuto l'inaspettata prontezza di spirito di rispondere "be', oppure è vero il contrario: che individui dotati di geni che danno ai neonati un cranio più duro e rigido tendono a sopravvivere e diffondere i propri geni meno di quelli con le ossa più morbide..." (la formulazione dialogica ovviamente è stata un po' più sommaria e concisa di questa).

Che è poi la differenza, per me fondamentale, tra il considerare l'uomo oggetto di un presunto disegno ed il vederlo invece, darwinianamente, come parte attiva (attiva se non altro in senso genetico) di un'evoluzione.

giovedì 21 giugno 2012

Un tentativo...

Telefonata tra mia moglie ed un addetto di call center di un noto operatore di telefonia fissa:

- Buongiorno, ho visto sull'ultima bolletta che mi avete addebitato una fantomatica "Consegna elenchi telefonici"... che io non ho mai chiesto...
- Sì. Non l'ha ricevuto?
- No. Né l'ho ricevuto in passato, né mi interessa riceverlo.
- D'accordo, allora le tolgo l'addebito.

Così, senza opporre nemmeno un po' di resistenza: sarò prevenuto, ma riassumerei la vicenda come "Che dire, ci abbiamo provato!"

lunedì 18 giugno 2012

Però c'è l'accento!

La fotografia è quello che è, e l'ultima parola - felice - si intuisce soltanto.
Che poi manchi anche dell'altro, be'... probabilmente se n'è reso conto anche l'autore, che ha pensato di compensare la "acca" perduta con un accento...

venerdì 15 giugno 2012

Ultimo giorno di scuola

Il mio ultimo "ultimo giorno di scuola" vero risale, direi, a sedici anni fa: concludevo, nel giugno del 1996, il quarto anno di liceo. L'ultimo giorno di scuola del quinto anno, oltre ad essere una giornata piuttosto triste per il senso di angoscia che dà, sempre, qualcosa di quotidiano che finisce, non fu un vero e proprio "ultimo giorno": non nel senso della libertà estiva, che gli esami di maturità spostavano un po' più in là nel tempo. Stesso discorso vale per l'ultimo giorno di lezione in università: altri cinque anni in cui, con il concludersi della didattica, non si concludeva certo l'impegno scolastico, che anzi entrava nel vivo con le sessioni d'esame.
Sedici anni fa, dunque: fino ad oggi. Oggi, in qualche modo, è di nuovo un "ultimo giorno di scuola": rientrerò infatti in ufficio nella seconda settimana di settembre, dopo aver fatto, per due mesi e mezzo abbondanti, il papà a tempo pieno. Vacanze estive, in qualche modo, come ai tempi delle superiori: con qualche pannolino in più da cambiare, qualche lavatrice in più di cui occuparmi, e tutto ciò che nella vita normale di una famiglia finisce per essere rimandato al fine settimana (non i pannolini, certo: penso a fare la spesa, lavare, stirare... e chi più ne ha più ne metta). Ma soprattutto con la presenza, sempre allegra e sorridente, della nostra piccola Irene ad occupare le mie giornate ed alla quale dedicarmi completamente: facendola giocare, cercando di dribblarla passando da una stanza all'altra, cucinando per lei, cullandola per farla addormentare...
In bocca al lupo, dunque, a me stesso ma soprattutto a lei, che per tutto questo tempo dovrà sopportarmi...

giovedì 7 giugno 2012

Lingue e relazioni non funzionali

"Che cos'è il tempo? Se non me lo chiedi lo so; ma se invece mi chiedi che cosa sia il tempo, non so rispondere", scriveva Agostino di Ippona, il mezzo integralista religioso e guerrafondaio che gli amici cattolici, di conseguenza, definiscono "santo" ed annoverano tra i "padri della Chiesa".
Stephen Hawking suggerisce l'idea che il tempo sia fondamentalmente un modello matematico utile, tra le altre cose, per misurare la durata di una partita di calcio e per studiare l'Universo nel quale viviamo (ok, quella della partita di calcio è mia). E che dunque nulla vieti di concepire un modello matematico diverso, ad esempio quel tempo immaginario che ben si presta a descrivere un Universo senza inizio e senza fine - chiaramente questo potrebbe configurare un problema per una partita di calcio, ma se parliamo di cosmologia l'idea che non sia indispensabile pensare ad un inizio rimuove la necessità di inventarsi un creatore e spazza via migliaia di anni di integralismi religiosi (ivi compresi, a ben vedere, quelli da cui s'è partiti: questo post dunque potrebbe scomparire da un momento all'altro, per suo stesso effetto).
Il colonnello Bernacca, dal canto suo, potrebbe affermare che il tempo previsto per domani è piuttosto variabile, forse pioverà forse no, in ogni caso meglio uscire con l'ombrello.

Ma che cosa è, il tempo?
Personalmente sono sempre stato disturbato dall'idea che la relazione significante - significato, in italiano, non sia funzionale: che cioè, ad esempio, la parola "tempo" significhi tanto "tempo cronologico" (time, Zeit) quanto tempo meteorologico (whether, Wetter). Questa caratteristica, comune certo ad altre lingue, costituisce in realtà l'essenza di molti giochi di parole: ed è pertanto una caratteristica interessante e stimolante di una lingua, per quanto la mia indole da algebrista in teoria non la apprezzi.
Molto più sgradevole e problematico, in effetti, è il fatto che non sia funzionale  la relazione grafema - fonema, fatto poco comune in italiano, lingua nella quale, piuttosto tautologicamente, amiamo dire che "le cose si pronunciano come si scrivono", ma comunissimo nella lingua di Sua Maestà Britannica Elisabetta Seconda: chi di noi non s'è mai scontrato con il fatto che parole "scritte allo stesso modo" si pronunciano, in inglese, in modo diverso?
Caratteristica interessante, invece, di molte lingue - voglio pensare di tutte - è che la relazione significante - significato non è iniettiva: in sostanza, esistono gruppi di sinonimi, parole diverse che hanno lo stesso significato, se non altro dal punto di vista denotativo - ché quello connotativo, la sfumatura che si vuol dare al discorso effettuando una certa scelta lessicale piuttosto che un'altra, è senza dubbio una complicazione ulteriore.
E' interessante, dicevo, perché è quella che fa la differenza tra un vocabolario ricco ed un vocabolario povero, tra l'utilizzare sempre le stesse parole (e se le cento usate sono in fondo sempre quelle non è importante poi comunicare, canta Guccini) ed il mostrare di conoscere ed apprezzare la varietà che la propria lingua offre, tra chi non sapendo se si scriva "legenda" o "leggenda" utilizza come criterio di scelta il numero di risultati restituiti da google - e finisce per corredare un grafico di una leggenda - e chi minge quando gli scappa da pisciare.

Mi viene da concludere che, forse, più che stuprare i propri neuroni con favolose ipotesi circa l'inizio del tempo ed il suo eventuale e fantomatico artefice, varrebbe la pena di riflettere un po' di più sulle - infinite? - possibilità che una conoscenza approfondita della propria lingua offre, tanto in termini di comunicazione (perché, a volte, l'importante è comunicare - non me ne voglia Guccini) quanto dal punto di vista degli stimoli al ragionamento ed alla riflessione che essa può suggerire.
Diversamente, si rischia di finire per credere alle leggende e pisciare sulle legende, anziché fornire legende e mingere sulle leggende.

Frutta... pilatesca

- Una ciliegia tira l'altra.
- E tutt'e due tirano il viso.