"Che cos'è il tempo? Se non me lo chiedi lo so; ma se invece mi chiedi che cosa sia il tempo, non so rispondere", scriveva Agostino di Ippona, il mezzo integralista religioso e guerrafondaio che gli amici cattolici, di conseguenza, definiscono "santo" ed annoverano tra i "padri della Chiesa".
Stephen Hawking suggerisce l'idea che il tempo sia fondamentalmente un modello matematico utile, tra le altre cose, per misurare la durata di una partita di calcio e per studiare l'Universo nel quale viviamo (ok, quella della partita di calcio è mia). E che dunque nulla vieti di concepire un modello matematico diverso, ad esempio quel tempo immaginario che ben si presta a descrivere un Universo senza inizio e senza fine - chiaramente questo potrebbe configurare un problema per una partita di calcio, ma se parliamo di cosmologia l'idea che non sia indispensabile pensare ad un inizio rimuove la necessità di inventarsi un creatore e spazza via migliaia di anni di integralismi religiosi (ivi compresi, a ben vedere, quelli da cui s'è partiti: questo post dunque potrebbe scomparire da un momento all'altro, per suo stesso effetto).
Il colonnello Bernacca, dal canto suo, potrebbe affermare che il tempo previsto per domani è piuttosto variabile, forse pioverà forse no, in ogni caso meglio uscire con l'ombrello.
Ma che cosa è, il tempo?
Personalmente sono sempre stato disturbato dall'idea che la relazione significante - significato, in italiano, non sia funzionale: che cioè, ad esempio, la parola "tempo" significhi tanto "tempo cronologico" (time, Zeit) quanto tempo meteorologico (whether, Wetter). Questa caratteristica, comune certo ad altre lingue, costituisce in realtà l'essenza di molti giochi di parole: ed è pertanto una caratteristica interessante e stimolante di una lingua, per quanto la mia indole da algebrista in teoria non la apprezzi.
Molto più sgradevole e problematico, in effetti, è il fatto che non sia funzionale la relazione grafema - fonema, fatto poco comune in italiano, lingua nella quale, piuttosto tautologicamente, amiamo dire che "le cose si pronunciano come si scrivono", ma comunissimo nella lingua di Sua Maestà Britannica Elisabetta Seconda: chi di noi non s'è mai scontrato con il fatto che parole "scritte allo stesso modo" si pronunciano, in inglese, in modo diverso?
Caratteristica interessante, invece, di molte lingue - voglio pensare di tutte - è che la relazione significante - significato non è iniettiva: in sostanza, esistono gruppi di sinonimi, parole diverse che hanno lo stesso significato, se non altro dal punto di vista denotativo - ché quello connotativo, la sfumatura che si vuol dare al discorso effettuando una certa scelta lessicale piuttosto che un'altra, è senza dubbio una complicazione ulteriore.
E' interessante, dicevo, perché è quella che fa la differenza tra un vocabolario ricco ed un vocabolario povero, tra l'utilizzare sempre le stesse parole (e se le cento usate sono in fondo sempre quelle non è importante poi comunicare, canta Guccini) ed il mostrare di conoscere ed apprezzare la varietà che la propria lingua offre, tra chi non sapendo se si scriva "legenda" o "leggenda" utilizza come criterio di scelta il numero di risultati restituiti da google - e finisce per corredare un grafico di una leggenda - e chi minge quando gli scappa da pisciare.
Mi viene da concludere che, forse, più che stuprare i propri neuroni con favolose ipotesi circa l'inizio del tempo ed il suo eventuale e fantomatico artefice, varrebbe la pena di riflettere un po' di più sulle - infinite? - possibilità che una conoscenza approfondita della propria lingua offre, tanto in termini di comunicazione (perché, a volte, l'importante è comunicare - non me ne voglia Guccini) quanto dal punto di vista degli stimoli al ragionamento ed alla riflessione che essa può suggerire.
Diversamente, si rischia di finire per credere alle leggende e pisciare sulle legende, anziché fornire legende e mingere sulle leggende.
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