giovedì 10 maggio 2012

Prove ontologiche e teoremi di incompletezza

Pensavo ad Anselmo d'Aosta ed alla sua prova ontologica dell'esistenza di dio, questa mattina Erano passate da poco le sei e tentavo di far riaddormentare mia figlia - tentativo per altro coronato da successo: I like it! - e la prova ontologica s'è insinuata nei miei pensieri. Lo fa spesso, in realtà, da quando ho avuto occasione di leggere una pagina di Facebook che, facendo riferimento, forse per sfottò e forse per errore, ad un tal Sant'Anselmo da Ostia, ne parlava, prendendo in giro l'approccio hai detto "dio" dunque esiste che caratterizza un certo modo di ragionare su certi specifici argomenti (si veda, ad esempio, la querelle tra UAAR e monsignor Nuvoli, di cui ho già parlato qui).
Ricordo, vagamente, la prima volta che ho sentito parlare di Anselmo d'Aosta: ero uno studente di liceo e la sua prova ontologica mi aveva in qualche modo colpito, non fosse altro che per la semplicità del ragionamento. Che per semplicità non si dovesse intendere, in questo caso, eleganza, bensì qualcosa di più vicino alla superficialità, be', mi è stato chiaro in seguito: ed è di questo che vorrei parlare, come se, tanti anni dopo, fosse venuto il momento di ricambiare - colpendo, a mia volta, il modo di procedere della prova ontologica: con grande forza, avrebbe aggiunto Weltroni ai suoi tempi: che poi i tempi di Weltroni sembrino non finire mai, nonostante tutto, be', è cosa che va ben al di là dell'essere in quanto tale, ma è anche, decisamente, un altro discorso.

Il ragionamento di Anselmo, fondamentalmente, è il seguente:
  1. Dio è, per definizione, qualcosa di cui nulla può essere pensato più grande (nel senso di vicino alla perfezione)
  2. qualcosa che può essere pensato come esistente è più grande di qualcosa che può essere pensato ma non esiste
  3. dunque Dio esiste
(applausi).

Ora: mi pare evidente che, se il punto 1, come ogni definizione, non è argomento di dibattito (voglio dire: se non ti piace questa definizione, prendiamone un altra, ma allora si tratta di giocare ad un altro gioco), e che se da 1. e 2. 3. segue in modo non evidentemente illogico, il problema di un ragionamento di questo tipo consiste nell'affermazione "qualcosa che può essere pensato come esistente è più grande di qualcosa che può essere pensato ma non esiste". I problemi sono essenzialmente due:
  • stabilisco per ipotesi qualcosa che voglio ottenere per tesi: la tesi poi ovviamente segue, ma vale zero
  • stabilisco per ipotesi una scala di valori (di perfezione) assolutamente soggettiva
Ciò che Anselmo fa è dunque prima di tutto stabilire per ipotesi ciò che vuol dimostrare come tesi: stabilisce cioè al punto 2. che esistere è più vicino alla perfezione, cioè per il punto 1. a Dio, che non esistere, il che, in modo totalmente inaspettato, conduce a concludere che Dio esiste.
L'altro aspetto, che chiamerò del relativismo della prova ontologica, si riferisce al considerare "più vicino alla perfezione" qualcosa che esiste di qualcosa che non esiste. Pensiero legittimo ma non certo indiscutibile - un po' come se io, sulla base di un gusto assolutamente personale, asserissi che essere di colore rosso si allontana dalla perfezione meno dell'essere di colore nero, e ne concludessi che dio non può non essere rosso. Allo stesso modo, per il mio vicino di casa dio potrebbe essere azzurro (perché azzurro è per lui il colore della perfezione), mentre per la vecchietta leghista del piano di sopra senza dubbio la perfezione è verde - e così dio. Dunque per qualcuno dio è fascista, per altri senza dubbio corre in bicicletta o scrive romanzi rosa - cosa quest'ultima che ho qualche difficoltà ad immaginare, ma non nego che mi divertirebbe molto.
La cosa curiosa di tutto questo è che da un argomento sedicente ontologico, relativo cioè all'essere in quanto tale, siamo arrivati ad una sorta di prova ontologica del relativismo - quasi che l'essere, in quanto tale, si prestasse ad infinite relativizzazioni, una per ogni soggetto di pensiero. E quasi che solo la fantasia personale fosse limite alle caratteristiche soggettivamente attribuibili a dio - e subito ontologicamente dimostrabili. Il che non mi sembra nemmeno tanto sconvolgente, facendosi riferimento per definizione ad un argomento sul quale non esistono riscontri oggettivi bensì solo differenti interpretazioni personali e culturali.
Dice: ma Dio, per definizione, è tutto questo, è rosso e nero ed azzurro e verde, a seconda degli occhi  con cui lo si guarda. Ha ispirato la Divina Commedia e, sì!, anche qualche romanzo rosa.
Ok, pare che ci siamo giocati il principio del terzo escluso... mi sembra un po' un trucco ma voglio stare al gioco: se veramente dio è tutto ciò che posso attribuire al concetto di perfezione... se veramente dio è tanto ecumenico da accontentare un po' tutti: come la mettiamo con il nazismo, le guerre, le malattie... con tutto il repertorio cioè di fenomeni che da millenni imbarazzano i credenti di tutte le fedi, costringendoli ad improbabili equilibrismi molto teo- e poco -logici?
Non rischiamo di sconfinare nel campo di Gödel, dove completezza e non contraddittorietà hanno la spiacevole abitudine di non presentarsi in coppia?
A questo punto Irene s'è addormentata, riconsegnando il sottoscritto ad un meritato sonno ed Anselmo ad un meritato oblio - e regalandomi, prima di riaddormentarmi, un attimo di atea serenità.

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