Il primo ricordo che ho di Cadel Evans risale al Giro del 2002: giovane, con i suoi venticinque anni di ex biker appena passato alla strada, e bello, in quella maglia rosa appena persa da Hamilton, di cui nessuna maglia da ciclista è più bella. Un eroe, in qualche modo, con quella cotta tremenda (crisi di fame, si dirà poi) che lo colse lungo l'ultima salita del Giro: da Rovereto a Folgaria ed a Passo Coe, salita che divenne per l'Australiano interminabile calvario. Il Giro poi fu vinto da Savoldelli, ma per me rimane il Giro di Evans, per uno di quei misteri del ciclismo per cui quello vinto da Tonkov è per molti il Giro di Olano.
Da allora, Evans ha sfiorato mille volte la vittoria, arrivando secondo, in grandi corse a tappe : due volte al Tour, una alla Vuelta (fermato da un cambio gomme ritardato, quel tanto che bastò a far vincere uno Spagnolo, come spagnola era l'organizzazione del supporto tecnico). Nel solo 2010 lo ricordo al Giro, a battagliare con i primi senza alcun gregario a portargli da bere, mentre i vari Basso e Scarponi se ne stavano comodamente nel gruppo ad attendere le borracce portate dai compagni; e poi al Tour, maglia gialla con caduta e rottura del gomito: concluse comunque il giro di Francia, abbandonando ovviamente ogni velleità di classifica.
Un paio d'anni fa la vittoria più importante: al mondiale di Varese, sorridente in maglia arcobaleno - su strada, dopo quelle vinte su sterrato nella sua vita precedente.
E poi, domenica scorsa: in giallo a Parigi, finalmente, dopo un Tour da protagonista, a lottare da solo sulle montagne, per poi superare gli ultimi rivali con una crono favolosa. Era dai tempi di Indurain che non mi sentivo tanto euforico per una vittoria d'un ciclista. Non più tanto giovane, e forse nemmeno particolarmente bello: dunque forse non eroe, ma certo un grande ed emozionante vincitore, per il Tour più bello da molti anni a questa parte.
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