lunedì 7 maggio 2012

Marò? Ma anche no!

Ho avuto la ventura, nelle ultime settimane, di passare dinanzi alla sede del Comune in due diverse città italiane (Brescia e Bergamo, per la cronaca). In entrambi i casi sono stato sorpreso dalla presenza, sulla facciata del municipio, di un manifesto che, sotto le immagini dei militari italiani coinvolti recentemente in fatti di cronaca giudiziaria in India, riportava la scritta "Salviamo i nostri marò".
Non voglio stare a sottilizzare sul fatto che la parola marò, sinceramente, riesce solo a darmi l'idea di una mezza imprecazione. Né entrare nel merito del fatto di cronaca, disquisendo della colpevolezza o meno dei due soldati coinvolti. Né, ancora, sottilizzare che poche cose sento più lontane dell'utilizzare un possessivo sulla base della mera origine geografica, e che dunque "nostri" non è il termine più adatto a farmi sentire partecipe di qualcosa di anche solo vagamente patriottico. Non voglio, infine, dar conto di quanto poco mi piaccia l'idea di militari italiani che girano per il mondo a (forse) sparacchiare, motivo in più per cui sarei contento che si addivenisse, in tempi brevi, ad un chiarimento giudiziario della vicenda.

Vorrei invece parlare di quello che gli Offlaga Disco Pax definiscono, a proposito di Francesca Mambro, l'uso sconsiderato del vocabolario. In particolare, a proposito del termine "salvare".
Per quel che ho capito, infatti, la diplomazia italiana insiste sull'attribuire al nostro Paese la giurisdizione sulla vicenda, attribuzione sulla quale non sembrano concordare le forze di polizia indiane - o non sembravano: sinceramente, non ho seguito la questione al punto da sapere, oggi, a che punto stia.
Il punto è comunque che le pressioni italiane sono volte ad assicurarsi che i due militari in questione vengano processati in Italia secondo le leggi italiane e non in India secondo quelle indiane. In entrambi i casi mi aspetto un giudizio serio, sereno, basato sui riscontri dei fatti e volto ad accertare, prima di tutto, la verità. La questione, per come la vedo io, è dunque puramente procedurale: stabilire chi sia il giudice deputato ad occuparsi di uno specifico caso. Nulla che abbia a che fare con un qualche salvataggio dei due militari - ché per salvare s'intende generalmente sottrarre qualcuno ad una fine ingiusta ed iniqua o ad una situazione di certa vessazione - sempre che non si voglia far passare l'idea che un giudizio italiano sarebbe di sicura innocenza, a fronte di un potenziale giudizio indiano di certa colpevolezza. Non potendosi mi pare basare un'iniziativa diplomatica su una premessa tanto politicamente scorretta (scorretta da entrambi i punti di vista, voglio dire), ne concludo che non si tratta dunque di salvare nessuno da nulla, tanto meno dalle proprie responsabilità. E che l'esposizione di certi manifesti in sedi istituzionali è, come minimo, fuori luogo.

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